- Premessa e nota a margine
In una ipotetica scala delle specialità gastronomiche, nessuno, oggi, si sognerebbe di negare un posto di rilievo al pomodoro. Non riusciremmo a immaginare, infatti, un primo piatto che non possegga una delle tante sfumature rosse del frutto. Eppure non sempre è stato così, almeno fino a un paio di secoli fa. Il caso dei pomodori e dei pomodorini, di Pachino e dintorni, è abbastanza esemplare per apprendere come il mercato e, dietro di esso, le lobby delle aziende sementiere, siano riusciti a dirigere la produzione agricola e manipolare il gusto, senza rifiutare, all’occorrenza, di creare fantastiche storie e tipicità inesistenti, pur di risultare persuasivi.
Il riferimento al territorio di Scicli è puramente esemplificativo, ma se si vuole, laddove sarà possibile e con ovvie cautele, potrà essere esteso a molte realtà della costa sud orientale siciliana.
- Breve antefatto, con annotazioni sull’antico consumo del pomodoro nei conventi di Scicli
Comparve per la prima volta nel 1532, con il nome di tomate, in un manoscritto del francescano minore Bernardino de Sehagun. Studioso attento alle abitudini delle popolazioni del Messico, il monaco descrisse una salsa a base di pomodoro, peperone, sale e peperoncino tritato, impiegatadagli indios per insaporire carni e pesci. Nonostante fosse accertato l’uso alimentare nei paesi della conquista, il pomodoro stentò, però, a superare l’etichetta di alimento velenoso, assegnatogli sin dall’inizio per l’appartenenza alla famiglia delle solanacee (per intenderci la stessa della mandragora e della melanzana, mela insana). Per due secoli rimase tra le numerose curiosità botaniche importate dalle Americhe e il nome attribuito (pomi d’oro) sottolineò più la diffidenza che l’interesse dal punto di vista alimentare. Sebbene l’impiego in cucina fosse iniziato dalla seconda metà del Settecento, l’uso divenne più popolare solo nei primi decenni dell’Ottocento, a seguito dell’abbinamento con i maccheroni, già molto diffusi.
Ufficialmente, la salsa di pomodoro comparve per la prima volta a Napoli, intorno al 1830, ma l’utilizzo dovette estendersi, un po’ diffusamente, in tutto il Meridione, sempre attorno allo stessoperiodo.
A Scicli, il pomodoro fu presente sulla mensa del convento dei padri cappuccini a partire dal mese di luglio del 1847, dove in una nota di spesa è scritto due uovi per tappuliatu e grani tre pomidoro, in tutto grani sei; poco più avanti, sul riepilogo mensile, è indicata la spesa complessiva di tarì due e grani sedici per l’acquisto di verdura, pomidoro pasta e crastoni. Il pomodoro era anche coltivato nell’orto del convento e consumato di sera, assieme ad altri ortaggi. Nel mese di giugno del 1852 viene segnato l’acquisto di due rotoli di pasta e grani due di extratto e, poco più avanti, in maniera ancora più esplicita, extratto di pomodoro, e due ova per il cappuliato per grani cinque (G. Portelli, C. Severi, Il gusto e i sapori, Modica, 1995).
L’uso dell’estratto di pomodoro già in quegli anni fa pensare che il pomodoro fosse coltivato, fuori dal convento, in aperta campagna, e fosse usato come condimento per la pasta anche in epoca antecedente a quella segnata sui registri del Convento.
I documenti dei padri cappuccini di Scicli rappresentano, fino a oggi, la testimonianza più antica sul consumo e sulle prime colture di pomodoro in provincia di Ragusa.
- La coltivazione locale, da contrada Fumarie alla società per le esportazioni di Arturo Morana
Al crescere dell’utilizzo in cucina aumentò, ovviamente, l’area di produzione del pomodoro. Per ragioni climatiche la coltivazione iniziò prima nel meridione dell’Europa, successivamente il pomodoro venne esportato al Nord e qui trapiantato. Nei primi decenni dell’Ottocento la sua presenza a Scicli è documentata negli orti dei conventi, ma fu verso la fine di quel secolo che la coltivazione si ampliò notevolmente, garantendo una consistente produzione annuale.
A Scicli, pionieri della coltivazione furono due agricoltori, Antonino Nigito e Mariano Zisa, che la introdussero nel 1899. L’area interessata copriva una superficie di circa un tumolo di terreno, in contrada Fumarie nell’agro di Donnalucata. Inizialmente la produzione trovò sbocco nei due mercati locali di Santa Croce e Vittoria. Sull’onda del successo, altre coltivazioni sorsero ad opera dei fratelli Antonino e Giovanni Carnemolla e di Michele Schembri, i quali indirizzarono le loro merci, soprattutto, verso i mercati di Ragusa e Catania.
Nel 1922 la produzione aveva già superato quella degli altri primaticci, e dalla stazione di Scicli partirono circa 400 vagoni, ciascuno di 70-80 quintali, per un totale di 27.000 quintali, con destinazione il nord del Paese e l’estero; nel 1934 le spedizioni raggiunsero i 50.000 quintali. La grande crescita produttiva spinse un imprenditore, il barone Polara, a fondare una società per aggirare l’intermediazione commerciale – considerata un limite alla distribuzione e al guadagno –, e occuparsi in maniera diretta dell’esportazione. Alla società aderirono anche alcuni commercianti di Catania e l’ingegnere Emmolo, progettista delle opere del consorzio irriguo dell’agro di Donnalucata. L’impresa non ebbe, però, vita lunga, e dopo appena due anni fu rilevata da un altro imprenditore, Arturo Morana, direttore dell’azienda Maestro, di proprietà del barone Emanuele Mormino. Nella nuova società, Morana aggregò un commerciante di Ortona a Mare, con risultati brillanti: la nuova compagine riuscì, infatti, ad aumentare le esportazioni verso l’estero e a rafforzare la ricchezza finanziaria della società.
- Il problema idrico e le prime varietà di pomodoro, dal costoluto al tondo liscio
La cronica scarsità di pioggia e le povere riserve di acqua, di cui disponeva il territorio, condizionarono enormemente la produzione iniziale del pomodoro. La maggior parte delle colture sorgeva, infatti, su terreni asciutti, mentre solo una settantina di ettari poteva beneficiare dell’acqua racimolata tra il torrente di Modica e quello di S. Bartolomeo. La coltivazione era a campo aperto e l’irrigazione era ridotta a un periodo molto ristretto dell’anno: iniziava dopo la fioritura delle piante, in genere verso metà aprile, e si protraeva fino a tutto giugno con cadenza variabile da 7,5 a 8,5 giorni. Per facilitare il percorso dell’acqua le piantine erano disposte, secondo un’antica pratica araba utilizzata nei giardini irrigui, sui rilievi di terra ai fianchi di piccole aiuole (famere). Le piantine molto fragili – soprattutto durante la fase di crescita – erano protette con sistemi rudimentali, tegole, pale di fico d’india, e, in seguito, anche schermi a forma di ventaglio, ottenuti intessendo canne e fuscelli di paglia o foglie di Tipha palustris.
A causa della scarsa irrigazione, l’unica raccolta annuale si aggirava intorno a 70 quintali per ettaro; una buona parte dei frutti non riusciva a superare dimensioni apprezzabili per arrivare sui mercati e finiva tra lo scarto. La varietà coltivata era il pomodoro di Ficarazzi, conosciuto anche come terminese o costoluto, con superficie a spicchi, molto spesso deforme e, quindi, di nessun pregio per il mercato estero. Intorno al 1925-26 la concorrenza proveniente dall’Olanda impose nuovi standard, con una varietà di pomodori di forma rotonda e liscia, la Comet, e, in seguito, la Best of all. Le maggiori esigenze idriche della nuova varietà misero in crisi i produttori locali che, così, si videro preclusi gli sbocchi nei mercati esteri. Per qualche anno le esportazioni diminuirono; nel 1929 le spedizioni crollarono a 20.000 quintali, rispetto ai 27.000 del ‘22 e ai 40.000 raggiunti nel ‘27. I coltivatori dovettero attendere l’estensione e il miglioramento della rete irrigua del consorzio di bonifica per contrastare la concorrenza e raggiungere nuovi livelli sostenibili di produzione.
Dopo il blocco per il periodo bellico, la produzione riprese a crescere, grazie anche al nuovo metodo di coltivazione in serra, fino a raggiungere un vero boom negli anni ‘60. Il mercato divenne più esigente; si affermarono nuove varietà, e tra queste il pomodoro San Marzano, destinato soprattutto all’industria conserviera. Il vero cambiamento arrivò, però, sul finire degli anni Ottanta.
- Dagli anni Ottanta ai giorni nostri, nuovi semi per tutti i gusti
Tutto iniziò nel 1989 con due varietà, il ciliegino Naomi e la varietà Rita a grappolo, entrambe nate in laboratorio, con la tecnica di selezione assistita attraverso un marcatore (MAS) dell’aziendaisraeliana Hazera Genetics. In poche parole, quello che in natura avrebbe richiesto un millennio (ricordiamo la selezione naturale secondo Darwin), il laboratorio lo ottenne in pochissimo tempo. La località prescelta per la coltivazione fu un lembo ristretto della costa sud orientale della Sicilia, il territorio di Pachino. La diffidenza iniziale dei coltivatori fu superata nel giro di un paio d’anni, grazie ai guadagni e al successo che il prodotto ebbe sul mercato.
Un problema lo presentavano, però, le nuove varietà. La riproduzione delle piante non sarebbe stata più possibile utilizzando i semi dei frutti coltivati, come era sempre avvenuto, perché le caratteristiche genetiche non venivano trasmesse alle generazioni successive. Un bel guaio per i coltivatori che si videro costretti a comprare ogni anno i semi dall’azienda israeliana, con un aggravio dei costi di produzione. Ma il successo di mercato fece dimenticare anche questo problema. Nel 2003 venne riconosciuto il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) e un Consorzio di tutela del pomodorino di Pachino oggi ne tutela l’origine e la tipicità. Nessuno dice più che questa varietà è nata in Israele e fu introdotta a Pachino nel 1989.
Dopo il ciliegino altre varietà sono state introdotte nella coltivazione, grazie alla tecnica impiegata dall’azienda israeliana. Il datterino e il pixel sono le nuove star della produzione attuale di pomodori e, probabilmente, altri sono pronti per gli anni a seguire.
A dominare, oggi, è una lobby di compagnie sementiere multinazionali che sceglie e assegna agli agricoltori le piante da coltivare, impone le tendenze di mercato, crea nuovi gusti, inventa narrazioni fantasiose per ammaliare e convincere il pubblico.
Nascono così pomodori buoni per tutti, in grado di coprire le diverse scale di colore, di grandezza, di forma, di sapore. Dal dolce all’acidulo, dal piccolo al grande, dal liscio al deforme e al costoluto, dal giallo al nero, è possibile disporre di una gamma di varietà che riesce a soddisfare gran parte delle preferenze dei consumatori.
Fra qualche anno scopriremo che nuovi pomodorini, neri o gialli, saranno tipici di altre aree geografiche e che, magari, da sempre hanno fatto parte delle tradizioni gastronomiche locali, né mancheranno nuovi piatti camuffati di antico per rendere tutto più vero. Nel frattempo avremo dimenticato Bernardino de Sehagun e l’origine del pomodoro, e nessuno penserà più che, fino a poco più di due secoli fa, i maccheroni erano conditi solo con formaggio o, ancora prima, … con zucchero e cannella.
Ma questa è tutta un’altra storia!
- Una singolare ricetta di fine Ottocento
Come al solito, concludo con una ricetta locale, di fine Ottocento, estratta dal volume Il gusto e i sapori (di G. Portelli, C. Severi, Modica, 1995). L’oggetto è una poco usuale marmellata di pomodoro, dal sapore dolce e tutto da scoprire.
Conserva dolce di pomodoro
Raccolti i pomodori scelti e maturi, si puliscono e se ne tolgono per quanto è possibile la buccia, l’acqua e i semi. Così tagliati a pezzi si fanno bollire per due ore; si ritirano dal fuoco e si passano allo staccio. La polpa così ottenuta si pesa e si bollisce nuovamente, aggiungendovi una uguale quantità in peso di zucchero fino. Il fuoco deve essere moderato perché la pasta prende facilmente il bruciaticchio e bisogna osservare che diventi ben pastosa e a consistenza di marmellata. Dieci minuti prima di ritirare la conserva dal fuoco vi si aggiunge per ogni chilogrammo di zucchero una bacchetta di vaniglia di mezza grossezza pestata finemente nel mortaio ed il sugo di limone. Si lascia quindi raffreddare e poi si mette in vasi e si chiude bene.
(proprietà letteraria riservata dell’autore)
Giovanni Portelli